Rugbisti si nasce, fratelli si diventa. Nascere rugbisti significa sentire il bisogno e spesso l’urgenza di darsi anima e corpo, la necessità di sfidare e lottare, il dovere di
provare anche a costo di soffrire, la voglia di giocare per
sé e soprattutto per gli altri, l’energia per ribaltare un senso di inadeguatezza, se non addirittura di inferiorità, e trasformarlo in un desiderio di superare e dunque, prima
ancora, di superarsi, di vincere e dunque, prima ancora,
di vincersi. Diventare fratelli significa sentire quell’orgo
glio di appartenenza, quello spirito di squadra, quel tutti
per tutti, quel legame così evidente in mischia nella sintonia, nella vicinanza, come una piccola società operaia di mutuo soccorso, ma anche fra i trequarti nella sincronia, nella profondità, come un piccolo equipaggio di pronto soccorso. Perché il rugby crea legami indissolubili
nel tempo, come essere stati compagni di banco in prima
elementare, come aver combattuto una guerra nella stessa
trincea, come aver affrontato tempeste oceaniche o telluriche, come essere precipitati in una lavatrice e sopravvissuti al programma centrifuga.
Ma anche.
Fratelli si nasce, rugbisti si diventa. Stessi genitori, stessa famiglia, stesso cognome. Stessa casa, stessa camera, stesso tinello. Stessi abiti, trasmessi, ereditati, allungati,
accorciati aggiustati. Stessi libri, stesse bici, stesse scarpe,
stessa maglia. E stesso sport, il rugby, stessa maglia, appunto, una volta l’ultimo sport della lista, cui giungevano gli scarti degli altri sport, chi troppo basso per il basket e
chi troppo lento per la pallavolo, chi incapace di nuotare
e chi di sciare, chi in panchina a calcio e chi in tribuna a
baseball, invece nel rugby c’è sempre stata una maglia per
ogni giocatore e un giocatore per ogni taglia. Oppure al
rugby giungevano per un’eredità familiare, un padre, uno
zio, un fratello, un cugino, per dna ovale oppure per contagio, portatori sani di una malattia sana che ha il potere di cambiare la vita in meglio, portatori di una ignoranza
sentimentale.
Il rugby vanta dinastie ereditarie per sangue. I Meads e i Clarke neozelandesi, i Boniface e i Camberabero e gli
Spanghero francesi, i McLean e gli Ella australiani. Gli
Underwood e i Farrell inglesi, i Francescato e i Parisse
italiani… E tutti quei Jones, Davies, Evans, Williams,
Thomas e Morgan gallesi che, come si sa, sono tutti nati o
sono stati tutti concepiti su campi da rugby. Le parentele
si moltiplicano anche nel rugby donne. Come se non fosse una questione di genere uomini o donne, ma di genere rugbisti o no. Una questione, come già scritto, di anima e
corpo, sfida e lotta, sofferenza e, questo non lo avevo ancora scritto, allegria.
I Cuttitta, tre su tre, nati fratelli, diventati rugbisti.
Michele il primo, Michele il veloce, Michele il pioniere, Michele l’esempio, Michele il modello. Poi Massimo e Marcello gemelli, però Massimo pilone e Marcello ala,
Massimo le fondamenta di una casa e Marcello la terrazza, Massimo il cemento armato e Marcello la pittura fresca, Massimo la carriola e i mattoni e Marcello i ritocchi
e le decorazioni, Massimo la forza e Marcello la velocità,
Massimo in kg e Marcello in km/h, Massimo in peso e
pressione e Marcello in leggerezza e vento. Protagonisti e
testimoni di un’epoca fantastica, quella che proiettò l’Italia nel Sei Nazioni. Il campo li univa, nella filosofia e nella
fede, nella grammatica e nel linguaggio, nelle battaglie e
negli obiettivi. Ci ha poi pensato la sorte a imporgli traiettorie diverse. Ma quel legame, fortissimo, stretto e abissale più speleologico che anagrafico, non si è mai esaurito, mai estinto. Una magia. Che in questo libro viene, data
dopo data, pagina dopo pagina, raccontata e svelata.
Marco Pastonesi
